Acquappesa

Last Updated: Luglio 29, 2024By Tags: , ,

Acquappesa (CS)

Racconti di una nonna lungo il filo della memoria snodano i ricordi di un antico mestiere e dell’ingegno di donne abili nell’affrontare i tempi duri di un passato non tanto lontano, quando l’acqua potabile in casa era un miraggio sfocato. Fino agli anni Cinquanta, recarsi ai lavatoi pubblici per fare il bucato era non solo una necessità ma per molte anche un’occupazione. Ceste ricolme portate abilmente sulla testa, un’andatura veloce e sicura, canti e risate da sempre accompagnano, nell’immaginario collettivo, la figura della lavandaia, ma la fantasia, si sa, spesso supera la realtà e in quei tempi dura lo era davvero. Per guadagnare qualche gruzzoletto, molte si recavano dalle signore facoltose, ritiravano i panni sporchi e li riconsegnavano lindi e profumati. Cenere e “olio di gomito” erano i trucchi del mestiere, dove non si gettava mai nulla, grazie all’arte del riciclaggio. Di detersivi nemmeno a parlarne, così l’abilità, tramandata da generazione, trasformava acqua bollente con cenere di frasche di ulivi e di fichi, alloro ed erbe aromatiche nella lissia, un naturale detergente per fare il bucato. I torrenti per sfregare e sciacquare e i rami spogli o l’erba per stendere: la fantasia e l’ingegno non lasciavano nulla al caso. Dall’alba sfilavano chiacchiere, confidenze e preoccupazioni di donne che trascorrevano gran parte della giornata a lavare, così come raccontano anziane sedute l’una a fianco all’altra nei vicoli di Acquappesa Paese, anche noto come Il Casale, caratteristico borgo sulla costa tirrenica cosentina, con un lavatoio pubblico, l’Acquappisa, che tanti ricordi e segreti ancora conserva. Qui l’acqua, che scende a valle da un dirupo e forma una cascata, come se fosse, appunto, appesa alla montagna, s’incanala ancora, e sembra portare a galla riti e abitudini. Le otto postazioni in muratura, all’epoca, erano prese d’assalto per sciacquare la biancheria dalla lissia, che lungo lo Stivale diverse denominazioni assume, ma con un immutato procedimento. Su una conca abbastanza larga si disponevano due pezzi di legno resistenti dove appoggiare una grande cesta di salice, con i panni sporchi sistemati in cerchi concentrici, da quelli più macchiati e pesanti, come le lenzuola e gli asciugamani, fino ai delicati, come i fazzoletti. All’estremità un telo filtrava la lissia, e l’acqua saponata, colata nel grosso recipiente, era poi riutilizzata per lavare i colorati. Una nottata in ammollo e il giorno dopo, con le sporte sul capo, le donne andavano a fare il bucato all’Acquappisa, una lavanderia all’aperto con due vasche, una sorgente naturale di acqua calcarea, calda d’inverno e fredda d’estate, due fontane laterali e tutt’intorno una ricca vegetazione di capelvenere. Un patrimonio storico-antropologico che, tuttavia, versa in uno stato d’incuria, con il rischio di offuscare una memoria da salvaguardare, per filtrare ciò che i ricordi portano alla luce.

Curiosità

• Con un po’ di fortuna, i panni si asciugavano al sole e sui balconi, ma più spesso sulle canne, sui rovi, sui rami spogli di alberi di fico o direttamente sull’erba.

•Il sapone si confezionava in casa con sugna, olio d’oliva, soda caustica e foglie di gelso.

• Quando l’acqua del lavatoio era abbastanza sporca, si toglievano tutti gli stracci vecchi e le pietre che tappavano le vasche; i pezzi di sapone caduti erano poi raccolti dalle lavandaie più “furbe”.

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